La festa dell'amicizia di Bobby Joe Long – Aoh!|IndieForBunnies

2022-09-10 14:03:32 By : Ms. Angela Yang

I Bobby Joe Long’s Friendship Party, precedentemente (e anche) noti come Oscura Combo Romana (OCR), sono la ramificazione capitolina dell’ideale albero genealogico che parte dai CCCP, passa per i Massimo Volume e arriva agli Offlaga Disco Pax. Reduci dai precedenti “Roma Est” (2016), “Bundytismo” (2017) e “Semo solo scemi” (2019), la cosiddetta ‘Trucilogia’ della ‘coatto-wave’, cioè un post-punk sintetico che funge da base alle elucubrazioni in romanesco del leader Henry Bowers, i BJLFP giungono al quarto album, laconicamente intitolato “AOH!”.

La triste perdita del chitarrista Abacab Carcosa (alias di Angelo Puzzutiello, scomparso nel 2019) ha impresso una svolta obbligata alla creatura di Bowers, che durante la pandemia ha iniziato a integrare corposi inserti di tastiere elettroniche ed un sound più massiccio rispetto alle scarne atmosfere del passato. La differenza si sente: i moduli elettronici prendono il sopravvento e la produzione effettua un salto di qualità, distillando una synthwave a tratti tempestosa e molto più orecchiabile, pur ritenendo a sé il retrogusto dello spassoso e delirante vaticinio del frontman.

L’apertura è affidata a “Chi ha ucciso Laura Palmer?”, un incubo urbano, forsennato synth-punk a rotta di collo, forse il capolavoro della loro carriera. Introdotto dall’agghiacciante soliloquio d’un borgataro che disquisisce di eroina, il brano rievoca l’effetto della droga sulla sfortunata parte della Generazione X che ne fu falcidiata nel decennio ‘80, mentre l’altra ballava inconsapevole “nei club-house”, ammaliata dalla certezza d’avere “un luminoso futuro”.

Ma c’è un secondo substrato, più sottile, che scavalla in quei primissimi anni ’90 che avevano visto “gli anni di piombo sorpresi dal sipario delle macerie di un muro”, sicché la Laura Palmer di Twin Peaks finisce per essere quel mondo, quella società travolta dai bombardamenti su Sarajevo, le stragi di mafia e la scure di Tangentopoli a sancire il passaggio forzato fra la Prima e l’infame Seconda Repubblica, come se il disagio nato in quegli anni ’80 fosse solo l’incipit della frana che di lì a poco si sarebbe ingrossata fino a travolgere anche i giorni nostri. Ed allora, chiudendosi il cerchio, l’estratto di quell’intervista iniziale vale da monito anche alla “gioventù mutilata” dell’oggi.

L’umore politico, finemente delineato fra le righe dei doppi sensi, brilla d’una lucidità capace di snocciolare considerazioni economiche e sociali tabù per la nostra decadente e pavida classe dirigente: “se te parlano de PIL, fatti er segno della croce / perché nun c’è economia che riparte se non fai lo scalpo a chi nun ch’a voce” ed ancora “è un’era post-ideologica d’un mondo globalizzato / dove il sogno americano è ormai bello che tramontato / e l’assistenzialismo di Stato percepito quasi come un reato”, riflessioni che dovrebbero monopolizzare dibattiti “de sinistra” ma che vengono scientificamente ridicolizzate come temi “sovranisti”, perciò banditi dalla Storia secondo ogni narrazione dominante.

Ma questo rifiuto di una globalizzazione posticcia determina un ripiegamento inevitabile verso il proprio mondo che, nel caso dei BJLFP, non può che essere Roma, il suo microcosmo interiore (la divinizzata “Roma Est”, un non-luogo per chiunque, tranne per chi ci abita), per poi rimettere le cose nella giusta prospettiva: “perché laddove oggi ce batte na mignotta / ieri c’è passato Odoacre a mettece er punto sull’Impero / a fa’ la start-up der casino / a getta’ ner panico er monno intero”.

Ad esempio, “Mortacciloro” inneggia alla “sfiducia manifesta in tutte le istituzioni”, là “dove brilla il dissenso, Mamma Roma piagne [perché] nun te lo dicono mica che non ce n’è pe tutti / che nessuno parte alla pari e che l’arbitri so’ corotti”. Il duetto “Stuff da Night Starker”, darksynth da manuale che deflagra in una luciferina coda strumentale, e “Notte de Varpurga”, che si conclude disarticolandosi tra fantasiosi scratch di piatti (graziati dal tocco di DJ Myke) e delicati arpeggi darkwave, descrive la decadenza di una società vacua, vanesia e depravata.

Calandosi perfettamente in quel caduco milieu, Bowers non manca di ironia in “Bela Lugosi’s Tanz”, video di lancio su un battito piacione alla “Funkytown” (Lipps Inc.), l’autocaricatura di un darkettone nevrotico a caccia di femmine borghesi in decolleté, Louboutin e chignon, adorabili solo quando te la danno. La dicotomia tra il centro (benpensante, stordito, classista) e la borgata (autolesionista, arguta, in eterna attesa di rivalsa), è uno dei tòpoi centrali nella dialettica dei BJLFP, e culmina nel dissacrante passaggio di “C’è da dire”, sulle torrenziali folate dei New Order: “la grammatica è uno stratagemma borghese / atto a tenere sotto il popolo, che ne paga sempre le spese. / Fosse per me, sui muri, solo: CAZZI, FREGNE, e ‘STRONZO CHI LEGGE’!”

Le atmosfere gotiche vengono accantonate nell’ariosa dedica a D’Annunzio in “VateWave” (introdotta da uno sciovinista: “io cerco sempre di comprendere i motivi delle cose… / ma se i motivi sono tedeschi, io li guardo sempre con sospetto!”), atteggiandosi con pose dandy su temi militareschi e superomistici, in una sorta di remake all’amatriciana di “The Boy With the Thorn in His Side” degli Smiths, e nell’abrasivo hardcore-punk di “C’ho tutto un sogno Ramones”, tra primi Killing Joke e Dead Kennedys. L’ipnotica “Happy Birthday” si conclude con un’orazione funebre che si leva dall’infernale battito electro. L’effetto, nel complesso, è innovativo e stordente.

Il citazionismo è sterminato su tutto lo spettro dell’arte e della cultura pop, del cinema, della letteratura, della cronaca rosa e nera, da Churchill (“un ladrone e un terrorista”) a Picasso (“laido sicofante”) a Marinetti (“fanculo sempre le accademie!”), da Gauguin a Pasolini ed Apollinaire, da Pietro Maso al Pacciani fino al ‘Tonno Insuperabile’, in un continuum che sembra flusso di coscienza, raccattando e assemblando artigianalmente segni, simboli e scarti organici della nostra contemporaneità in modo non dissimile dall’estetica “vapor”, quella di internet e dei meme, codice espressivo della nostra compulsiva fruizione centrifuga, perennemente fuori fuoco, affastellata e tenuta insieme con lo spago delle libere associazioni.

Ma da queste odi al nichilismo trasuda sempre una sardonica consapevolezza, anche oltre il limite del cinismo, che va a costituire il filo rosso d’un logos altrimenti sconclusionato, il ché rende questa versione ipercinetica e burina dei CCCP un caso eclatante dell’underground italiano, un’autentica boccata d’aria fresca nel generale intruppamento perbenista che sta soffocando ogni deriva artistica ed espressiva. C’è ancora molto da limare, in primis l’eccessiva ripetitività nella struttura di alcuni brani, a cui manca come il pane il colpo di genio dell’improvvisazione: ma, dati i margini, questa potrebbe anche essere una buona notizia.

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